Penso quindi sono.

Ma sono io o il pensiero pensato da qualcun altro?

E quali pensieri nobilitano?

Solo l’atto del pensiero è nobile, o alcuni pensieri lo sono più di altri?

Fa caldo oggi. Ma che ci faccio qui?

Sono una brava amante. Esperta e generosa. Lo dicono tutti e tutte.

Dicono che con il culo a mandolino che mi ritrovo e le tette piccole, uomini e donne agonizzino per me. Anche se non sono più giovane la mia energia conquista.

Fa proprio caldo.

Allora via mutandine, maglietta, reggiseno.

Ecco! Così.

Nuda.

Mi piace stare nuda sul letto a laccare le unghie.

Oggi sceglierò…

Mi piace il lampadario. Ha le gocce di vetro colorate. Quando il sole le colpisce hanno mille riflessi: verdi, gialli, rossi, blu…

Dipingerò le unghie di…

Chissà che colore avrebbe scelto Laura.

Laura ha le tette grosse. Mi piace.

Anche Marco mi piace, meno di Laura, più di Matilde.

Marco indossa sempre giacche di velluto. Mi piace, un po’. Non mi piace, quando insiste per frugare nelle mie mutandine. Però mi piace, forse anche io gli piaccio. Mi piacerebbe piacergli. Potrei piacergli. Ma se gli piaccio e cerco di piacergli, si stanca e poi non gli piaccio più. E se non gli piaccio più il mio piacermi che cosa fa? Che cosa diventa? Dove va?

Uffa!

Com’è difficile. Mi viene da piangere.

Quando ho questi pensieri mi perdo. Faccio fatica a concentrarmi, a sorridere. Mi viene la tachicardia. E più il cuore batte forte più le lacrime scendono. E più scendono più aumenta la tachicardia.

Come adesso.

Con le lacrime lo smalto si bagna. Mi devo asciugare il moccio.

Ecco. Così. Sulle braccia. Non importa se le tette si sporcano. Tanto il muco si asciuga e presto, vicino ai capezzoli, comparirà solo una piccola striscia trasparente, sottile, come bava di lumaca.

Potrei andare tra i campi a raccoglierle. Quelle belle, con le cornine e la casa di conchiglia. Sono timide. Se le sfiori si ritraggono. Potrei riempirne un sacchetto. Una volta di ritorno sdraiarmi sul letto e farle camminare sul mio ventre. Chissà il solletico.

Ho il ventre piatto.

Non gocciola solo il naso

Gocciola anche il mio utero.

Goccia dopo goccia.

Sangue fresco.

Sangue rosa, trasparente. Come un fresco bouquet delle colline.

Da ragazzina andavo in collina, tra le vigne, stivaloni, cesoie e vendemmiavo. Elettrizzante l’autunno con i suoi colori ramati: rosso, marrone, viola, giallo, bronzo…

Ho smesso quando un colpo di cesoia ha portato via l’ultima falange del mignolo sinistro.

Che male. Quanto sangue. Non voleva fermarsi. Urlavo. Sono accorsi tutti.

C’era tanta gente attorno. Non come ora. Sola in questa stanza d’albergo.

Perché sono qui da sola? Non ricordo come ci sono arrivata.

Mi perdo spesso e poi non ricordo.

Oggi vorrei urlare come quel giorno.

Vorrei urlare come l’ebreo Shylock.

L’orrido ebreo dal naso adunco, subdolo, avaro, profittatore. Quell’urlo è mio. Mi appartiene.

E anche io urlo. A piena voce, a pieni polmoni.

Incurante e inascoltata.

Un ebreo, non ha occhi? non ha mani, un ebreo, membra, corpo, sensi, sentimenti, passioni? non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, soggetto alle stesse malattie? … Se ci pungete, non sanguiniamo? Se ci fate solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo?

Urlo e continuerò a urlare. Mentre il mio utero si scioglie goccia dopo goccia.

Urlo e canto.

Goccia goccetta che gocciola, sgocciola goccia a goccia, sgocciola goccia su goccia. Sgocciola. Nello sgocciolare ogni goccia rimbalza, sia goccia marzolina, goccia birichina, o goccia saltellina. Sgocciola, gocciola, goccia a goccia, goccia su goccia. Sii goccia.

Non basta.

Prenderò il mio sangue. Impasterò calce viva e ridipingerò le pareti. Saranno di un bel rosa pallido. Solo allora non ci sarà distinzione tra me e questa stanza. Io sarò questa stanza. Questo sepolcro. Questa bara.

No! Non basta.

Filtrerò il sangue mestruale. Ne farò una maschera. Dipingerò il mio corpo. Diventerò donna nubiana di rossa terracotta, ricoperta dal sangue mio rappreso.

Maschera il volto. Strisce di bava sul seno. Sciolto il mascara. Strisce nere sul volto. Rossa la carne.

Ora posso danzare.

Vestita di uno scialle di seta verde volteggio sulle mie gambe lunghe. I piedi ritmano una danza antica. Le mie braccia mulinellano nell’aria. È un frullio d’ali. Volteggia il foulard. Divento farfalla, fenice, colibrì. Avvolgo lo scialle come ijab delle donne berbere colorate, delle donne di Somalia, alte orgogliose, distanti.

Il mio mignolo matto rivestito di un ditale d’oro batte il tempo su un piatto di porcellana. È la musica delle mie viscere.

Sopraffatta dalla stanchezza mi butto sul letto. Torna il silenzio. Contemplo il ditale d’oro. Scintilla nel silenzio.

Colorerò le unghie. Ma con quale colore?

Non devo confondermi.

Devo fare attenzione. Senza distrarmi.

-Calma Carmela! Adesso concentrati.

Mi fa bene quando mi parlo e mi prendo per mano.

A volte funziona. Mi do degli ordini e li eseguo. Come se fossi la mia tutrice e fossi obbligata a obbedire. Mi parlo e mi tengo compagnia. E allora divento… Allora sono la mia migliore amica.

-Calma Carmela. Adesso svuota la borsa sul letto. Controlla quali smalti hai.

Ecco così. Brava. Adesso apri le boccette e prova i colori. No! Non sulle unghie. Non hai abbastanza acetone per togliere il colore. Attenta! Quando gli smalti sono freschi diventano una poltiglia se li tocchi.

-Potrei provare sulle braccia, sull’avambraccio sinistro. Tra il gomito e il polso. Là dove ho fatto tatuare la scritta revenge. Là il sangue non è arrivato.

-Brava buona idea.

-Ti piace la scritta? Trovo belli i caratteri neri, sottili, in corsivo.

-Sono belli. È vero. Ma adesso spennella un po’ di giallo sull’avambraccio.

-Così?

-Di meno altrimenti sporchi le lenzuola.

-Bello il giallo. Mi piace. Ricorda i limoni di Amalfi, il loro profumo

-Aspetta a scegliere. Prima prova gli altri.

-Rosso, come il mio corpo.

-Verde, come i nostri occhi.

-Viola, la buccia delle melanzane.

-Nero, è la notte buia che fa paura.

-Arancione, è il colore del sole a mezzogiorno.

-Rosa, l’aurora.

-Azzurro, il cielo. Lilla i campi di glicine.

-Attenta! No. Non così. Vedi… Hai sporcato tutto il copriletto. No! Non raccogliere il colore con le mani… hai fatto un disastro. Ferma…

-Non sgridarmi. Non ho fatto apposta.

-Adesso non piangere come tuo solito.

-Non è colpa mia.

-Smettila di piangere ti ho detto. E non ti muovere. Sei riuscita anche a sporcarti i capelli.

-Sei cattiva. Con te non ci parlo più. Io piango fin che voglio. E tiro su col naso. E mi sporco. Perché io posso fare quello che voglio. Vattene! Cattiva! Cattiva! Cattiva!

Adesso vado in bagno.

È tutto così pulito. Quanta ceramica bianca! Che bello lo specchio sul lavandino. È enorme.

Che bella l’immagine che rimanda. Sembra la festa dei colori. Mi stanno bene i capelli azzurri. Sarebbe bello tagliarli. Tengo lunga la parte colorata. Accorcio l‘altra.

Vediamo! Sulla mensola della specchiera c’è il pettine. Ci sono lo spazzolino, il dentifricio, lo shampoo. Tutto in mono dosi. Ma dove sono le forbici? Non le vedo. Ah eccole. Sono piccole, ma i miei capelli sono sottili, neri.

L’azzurro sta bene sul nero.

Ahi! Non tagliano. Adesso come faccio?

-Tirali. Usa la forbice come un seghetto.

-Stai zitta tu. Ti ho detto di andartene.

Però non è una cattiva idea.

Stringo i denti. Tiro. Taglio.

I capelli cadono leggeri sulla ceramica. Si attaccano al petto.

Crunch. Crunch. Crunch.

A poco a poco scopro l’orecchio destro.

Mi divincolo, mi piego, mi storto.

Crunch. Crunch. Crunch.

Sono bella.

Ballo leggiadra. Volteggio fino alla camera da letto. Più azzurro. Più azzurro. Devo mettere più azzurro. Prima sulle mani. Poi sui capelli. Solo dalla parte sinistra.

Volteggio. Danzo. Il ditale d’oro batte il tempo. I piedi seguono il ritmo. Il mio corpo è teso, sfibrato, ma danzo perché lo smalto possa asciugarsi. Torno in bagno con le boccette. Nera la coppa sinistra, lilla la coppa destra.

Dipingerò le unghie di…

Un colore diverso per ogni dito. Inizio dal piede sinistro.

Rosso l’alluce, come i papaveri, come la mantiglia sventolata davanti ai tori che li fa impazzire.

Verde il secondo dito, per la speranza, per i prati d’erba appena rasati.

Viola il terzo, come la rabbia, come i colori dei preti traditori, come il lutto.

Nero il quarto, per la coscienza sporca. Perché è tutti i colori. E se è tutto, è come la vita.

Il quinto lo voglio arancione, come la sabbia del mare al tramonto.

Adesso passiamo al piede destro.

L’alluce giallo come le margherite, come i ghiaccioli d’estate, i vecchi taxi.

Il secondo dito rosa come i nastri delle bambine, i confetti, la pasta di salmone.

Il terzo azzurro come il mare, che ancora non si tinge di blu. Le grand blue.

Il quarto lilla, pieno di luce. Intermedio tra rosa e blu.

Accidenti ho finito i colori. Non importa.

Il quinto dito lo faccio ancora rosso. Il rosso della passione, della rabbia, della violenza. Il rosso del sangue versato, patito sofferto, inflitto, rubato.

Perché sono qui da sola? Non ricordo come ci sono arrivata.

Mi perdo spesso e poi non ricordo.

Vorrei urlare.

Ma chi potrebbe raccogliere il mio urlo. E se urlo e non arriva nessuno poi sentirò più sola. Ma se arriva qualcuno mi cacceranno. Allora urlo solo un po’. Ma un urlo appena urlato non è un urlo. Un urlo ha bisogno di essere urlato. A piena voce, urlato fino a strozzarsi, perché l’urlo possa risuonare e cacciare i fantasmi. Ma se urlo, e l’urlo non è abbastanza forte, può chiamare i fantasmi. Se arrivano i fantasmi saranno loro a urlare, e guardare nell’abisso.

Chi guarda nell’abisso?

Io guardo nell’abisso. Ma se io guardo nell’abisso, l’abisso guarda in me.

Chi l’ha detto? L’ha detto Gandalf il grigio. L’ha detto Gandalf il bianco?

Mi piace il Signore degli anelli. Gli orchi mi fanno tenerezza nella loro bruttezza. Non hanno nessuno che li accolga. Non hanno un luogo loro in cui fermarsi. Mi somigliano. Sono mostruosi come me.

Mi piace anche il ramingo. Anche lui mi somiglia. Anche io vado errando. Erro senza meta. In un viaggio senza fine e continuo a fare errori nel mio errare.

Ma io vorrei fermarmi.

Vorrei la mamma che mi cantasse la ninna nanna, come quando ero piccola. Ogni notte era una ninna diversa. Le inventava lei e le cantava con la sua voce delicata.

Dormi Melina mia piccina. Apri il cuore per l’amore. Fai danzare il mare negli occhi belli tuoi. Fai cantare fate ed elfi.

Dormi mia piccina. Sarà bella, sarà festa, sarà la notte tua.

Dormi mia piccina.

Come vorrei dormire. Ma se mi addormento potrei perdermi nel tempo. Potrei non tornare. E sarebbe un po’ come morire. Allora no. Non posso dormire. Non posso dormire finché lo sfinimento non mi colga all’improvviso, e io non mi ritrovi nel sonno come colpita da una mazza. Non voglio scivolarci dentro, lentamente, accorgendomene, e provando ogni volta l’orrore della fine.

Poco importa come sono arrivata qui. Poco importa chi mi ci abbia portata. Poco importa se qui sono sola.

Sono sempre stata sola.

Qui o altrove non importa. E poi, ho laccato le unghie.

-Sono belle. Non è vero?

Tratto dalla raccolta “Quarantanove volte Carmela” di Gianfranco Falcone.