Caro Alessandro,
sì caro. Permettermi di chiamarti ancora così: caro. Perché tale mi sei. Nonostante l’impossibilità di continuare insieme, mi sei caro.
Ce lo siamo detto mille volte e mille, che non è l’amore a mancare tra noi due. L’impossibilità di un reale incontro è data dalle differenze che ormai hanno scavato un abisso.
Nonostante il mio amore, non posso più accettare il tuo ritiro dal mondo.
Le tue riflessioni sono corrette. Le rispetto, le condivido.
Ma come sai c’è un ma. Un ma che col tempo si è trasformato. Quella che all’inizio era una piccola crepa è diventata una frattura insanabile, nonostante me, nonostante te, nonostante noi.
Ciò che tu affermi è vero, incontestabile.
Ma… a volte… Ed è questo il ma a cui mi riferisco.
A volte, bisogna avere il coraggio di andare contro la ragione.
È vero. Tutto è inutile. L’Io è un’illusione. I nostri valori sono soggetti alla legge del tempo. Sono idoli, totem precari, destinati a essere cancellati dalla storia.
È vero.
Hai ragione.
Ma io sento ancora l’esigenza, la necessità di sporcarmi le mani.
È per questo che sono andata in Rojava.
Ed è per questo che domani andrò in Procura.
Non so che cosa vogliano. Ma ci andrò.
Il mio avvocato dice che sono convocazioni effettuate di prassi, quando una persona torna da zone di guerra. La Procura, e per suo mezzo lo Stato, vogliono sapere se rappresento un pericolo. Se la mia familiarità con le armi, gli esplosivi, la morte, rappresentano un pericolo per lo Stato.

Caro Alessandro, rappresento un pericolo?
Sono arrivata in Italia da pochi giorni. I miei non sanno nulla. Ho preferito non dirglielo. Con i pochi soldi rimasti ho preso una stanza nell’albergo dove andavamo a vivere la nostra passione.
Ho prenotato la stanza 313. La nostra stanza. Quella che dà sul vicolo, chiuso dal grande cancello in ferro sbalzato. Quella da cui si vede uno spicchio di paesaggio. Non è cambiata. C’è sempre la grande specchiera, il lampadario finto Calder con le gocce rosse, la caffettiera americana.
Sono appoggiata al piccolo tavolo in mogano, e ti scrivo, mentre sorseggio la brodaglia scura del caffè americano. È una brodaglia, ma durante le notti passate al freddo, a montare la guardia tra gli uliveti, la sognavo.

Caro Alessandro, ti scrivo perché l’amore non si cancella con un tratto di penna. Ti scrivo perché so che il nostro incontro è stato un bene per entrambi.
Tu sei uscito per un attimo dal tuo sonno prolungato, dalla tua indifferenza per la vita. Ma anche io ho ripreso a vivere.
Come vedi questa lettera è colma di ma. Quasi che siano stati i ma a caratterizzare il nostro incontro, il nostro commiato.
Caro Alessandro, con te mi sono riaffacciata alla vita. Ho scoperto di essere ancora desiderabile. Che la vita è desiderabile. Con te ho scoperto che non volevo riaddormentarmi. In questo non volermi riaddormentare trovo la ragione profonda della mia partenza per il Rojava.
Avevo iniziato a sentire le prime notizie confuse dalla stampa, poi dai compagni che tornavano da quei territori. Si parlava di battaglioni femminili, di una costituzione all’avanguardia, che metteva al centro l’ambiente, le donne. Si vociferava che in ogni villaggio, in ogni campo, ci fosse una casa delle donne. Si diceva che prima di prendere qualsiasi decisione le donne fossero interpellate.
Poi iniziai a sentire le storie di chi partiva per il nord della Siria.
Si partiva come si faceva durante gli anni trenta per andare in Spagna.
Si partiva come facevano i compagni comuni da tutto il mondo, come fecero i fotografi Robert Capa e Gerda Taro, i giornalisti scrittori Ernest Hemingway e Martha Gellhorn. Come fecero i noti e i meno noti.
Si partiva per un credo politico, per ingenuità, in cerca di avventure. Si partiva, si tornava, si moriva. Sì perché lì c’erano gli ideali, ma c’era anche la morte.
C’era la guerra in Spagna.
C’è la guerra in Rojava.
Il Rojava è un lembo di terra incuneato tra Siria, Iran, Iraq, Turchia.
Tu conosci quelle zone. Ci sei stato, ci hai viaggiato per mesi in treno, in autobus, in taxi. Eri affascinato dalla Siria, colpito dalla modernità dell’Iran.
Mi mettesti in guardia.
“In quelle terre litigano su tutto. Si trovano d’accordo solo quando si tratta di dare addosso ai Curdi. E quando non serviranno più per combattere l’Isis, torneranno a dargli addosso. Così come stanno facendo i Turchi, che se ne sbattono dei trattati internazionali e portano avanti i loro massacri”.
Avevi ragione. Eppure. Nonostante la tua ragione, là in Rojava c’era ancora chi sognava, lottava, e moriva.
I curdi non avevano proclamato uno Stato indipendente. Ma cercavano di dare vita a una regione autonoma, dove cristiani, mussulmani, arabi, curdi, peshmerga, yazydi, potessero vivere in pace. Dove ogni popolo potesse pregare il suo dio.
Come vedi ci troviamo ancora davanti a uno di quei ma, che alla fine hanno costruito un solco insormontabile tra me e te.

Caro Alessandro, a volte bisogna andare contro la ragione, avere il coraggio della passione. Si deve abbandonare la ragione e gettarsi nella mischia. Perché per quanto la nostra ragione sia ragionevole, non riuscirà mai ad abbracciare completamente il reale.
Caro Alessandro, a volte è necessario lanciarsi nella mischia, pur sapendo che saremo sconfitti. Perché quello è l’unico modo che rimane per affermare le proprie ragioni.
Forse, questa diversa prospettiva non rappresenta solo una differenza tra me e te. Forse rappresenta la profonda differenza tra femminile e maschile.
Io Antigone, legata alla legge del cuore, al pathos, aderisco a una legge più profonda di quella dello Stato e seppellisco il fratello, nonostante i decreti del re. Tu Creonte, ti appelli alle superiori leggi dello Stato, al logos, e vieti i funerali al fratello morto oltre le mura della città.
Non so quale legge sia la migliore. Forse non si tratta di migliore o peggiore. Forse, si tratta di leggi che sempre stanno in bilico, sempre cercano un punto di contatto, di equilibrio, e perennemente si scontrano.
Non si tratta di un meglio o di un peggio. Sono solo modi diversi dell’essere.
Ho tirato le tende. La stanza è immersa nella penombra. Qualche rivolo di luce filtra tra le fessure. Lasciando che il pulviscolo compia la sua danza leggera. C’è profumo di rose nell’aria. C’è ancora qualche petalo bianco sul copriletto. L’aria è carica di elettricità. Dalle imposte socchiuse arriva il profumo pungente di ozono. Sta per iniziare il temporale. Sento le prime gocce rimbombare sull’asfalto, sollevare il caldo. Piove.
Chiudo gli occhi. Mi immergo nella memoria.
Là in Rojava i giorni erano lunghi. Se non eri di guardia, in perlustrazione, o non eri impegnata in azione, il tempo sembrava non passare mai. Allora ti mettevi a pensare. Avevi il tempo di ascoltare la paura.
La paura che ti prende durante l’inattività ha un sapore particolare. Si carica di fantasmi. È sganciata dalla realtà. I fantasmi si mischiano al rumore dei mortai, delle granate, al boato dei missili che esplodono. Impari presto a distinguere l’appartenenza di quei colpi, distingui i vari tipi di sibilo, di crepitare, di boato. Non saprei dirti come fai. Ma impari presto. Perché spesso da quello dipende la tua sopravvivenza. Se quei rumori sono troppo vicini devi allontanarti, altrimenti rimani travolta dall’esplosione. Alcune delle ragazze nuove non hanno avuto il tempo di imparare. Abbiamo dovuto seppellirle tra gli ulivi. Se potevamo sceglievamo gli uliveti nuovi. Quelli appena piantati, che cercavamo di far ricrescere, dopo che la furia della guerra ha spazzato via gli alberi secolari. Riducendoli a tizzoni anneriti, a schegge fumanti.
Cercavamo gli ulivi novelli perché le nostre donne potessero proteggerli, e i piccoli ulivi crescendo, potessero cullarle con i loro rami.
Sai, l’odore della morte è strano.
La morte in Rojava puzza.
Sì! Questa è la prima cosa che mi viene in mente.
In Rojava la morte puzza. Puzza di merda, di carne dolciastra bruciata.
Non c’è nulla di glorioso. Solo puzza e mosche.
La morte puzza in Rojava.
Ognuna di noi cercava di difendersi da questa morte meglio che poteva. Cercava di difendersi cercando di non affezionarsi alle nuove. Ma era inevitabile. Vivendo una addosso all’altra finivi per conoscerti. Conoscevi storie d’amore, felici e infelici. Conoscevi vite normali, fatte di studi universitari, aperitivi, lavori in fabbrica, di serate in discoteca, di birra nei centri sociali. Conoscevi vite fatte d’impegno, vite fatte di noia.
Conoscevi vite.
Ma soprattutto conoscevi una disperata ricerca di senso. Conoscevi una fame, che ormai da tempo non avverto più in te. Quella fame l’ho vista affievolirsi, spegnersi a poco a poco. Sostituita da un sarcasmo che appiattisce ogni cosa.
Con le donne dei battaglioni femminili ho finito per dividere ogni cosa. Sia la foga della battaglia sia i numerosi momenti di tregua.
Sai Alessandro, è facile dividere la battaglia. Lì l’adrenalina ti sostiene. Non pensi. È il tuo corpo che agisce, e finché la macchina corpo non si blocca va tutto bene. Va bene nonostante il sangue, gli arti spezzati, le viscere vomitate dallo stomaco, la merda, le fratture. Va tutto bene perché il corpo ha un suo linguaggio, ineffabile. Non si ferma davanti a nulla. È il dopo che è terribile, difficile da gestire. Nel dopo ti assale il ricordo di tutto quel dolore, di quel sangue, delle amiche morte e seppellite.
Nel dopo.
Nelle ore della noia, prima che l’adrenalina esplodesse nel corpo, scambiavi le ultime gocce di profumo, gli ultimi assorbenti. In mezzo a tutto tanto te. Il bricco era sempre acceso. Giravano tazze bollenti, colme. Bevevamo per ingannare il tempo e noi stesse.
In quelle ore ho imparato a montare e smontare un AK-47, a innescare e disinnescare mine, a ricomporre fratture, suturare ferite, arrestare emorragie. Queste cose adesso saprei farle ad occhi chiusi.
È per questo che la procura mi considera pericolosa?
Mi considera pericolosa perché ho deciso che non volevo essere complice della barbarie, che non volevo tacere davanti alle donne stuprate e vendute, alle libertà negate? Mi considerano pericolosa perché non ho voluto e non voglio che una parte del mondo precipiti nell’oscurantismo?
E tu Alessandro? Tu, mi consideri pericolosa? Perché?
Mi manchi.
Mi mancano i tuoi gesti, le tue carezze. La prima volta che mi accarezzasti in quel tuo modo particolare rimasi sorpresa. Era così insolito. Rividi quel gesto una notte, accoccolata accanto al fuoco, in una delle case del villaggio dove ci eravamo spostate di pattuglia. Asha mi chiese di te e io non trovai di meglio che mostrale una nostra fotografia, quella in cui ci guardavamo occhi negli occhi; le nostre mani una sull’altra sul mio sterno. Asha non smise un attimo di prendermi in giro quella notte. Non avevo ancora fatto a tempo a mostrarle la fotografia che ero già sprofondata nel ricordo. Piena della sensazione delle tue mani, di quel tuo modo particolare di appoggiarle sul mio petto, sulle braccia, sul viso. Mi bastava guardare quello scatto per ascoltare il tuo tocco. Le braci del fuoco raccontavano di una leggera pressione, quasi a sfiorare la pelle, del tuo rialzare le mani e appoggiarle in un altro punto.
Non dissi niente di tutto questo ad Asha ma evidentemente i miei occhi parlavano per me. Asha si limito a sorridere, da sorella.
Tu non sei un timido Alessandro. Hai avuto tante donne, ma nelle tue carezze avvertivo l’apprensione con cui ti avvicinavi alla mia fisicità, la cautela che mettevi nel tentativo di percepire lo spazio che occupavo tra le tue mani, nella tua vita, nel tuo cuore. In te avvertivo meraviglia, il tentativo di comprendere la profondità di quello che ti stava accadendo. Era tutto così nuovo per me. Non so se te l’ho mai detto quanto mi piacessero, quanto fossero nuove, quelle carezze per me. Quanto mi sorprendessero ogni volta.
È per questa sorpresa, per questa meraviglia, che mi consideri pericolosa?
Mi consideri pericolosa perché la prima volta che entrasti in me non fu per fame di possesso, ma perché ti eri perso, e ti eri ritrovato tra le mie braccia?
È per questo che non puoi perdonarmi?
Non puoi perdonarmi perché ti ho amato, senza ricattarti come hanno fatto le donne della tua vita?
È per questo?
Asha non parla molto. È una buona sorella, una buona combattente. Non ha esitazioni. Non ama raccontarsi. Quel poco che so l’ho raccolto dalle altre donne. Asha arriva dalla Somalia. Ha pagato per attraversare il deserto, ma qualche cosa è andata storta. Così è stata venduta e rivenduta. Stuprata e comprata. Finché una notte è fuggita dal suo carnefice. Non so altro. So che a volte la notte la vedo tremare, sussultare, sudare. Allora la prendo tra le braccia, e un po’ si calma. La sua forse non è neanche la storia più dura. Ce ne sono tante altre di altrettanto terribili. È questa terribilità che le fa andare avanti. Fa sì che siano disposte a dare la vita per non ricadere nelle mani dei loro carnefici. In Rojava hanno trovato una casa, una famiglia, una ragione per vivere. A poco a poco tutte noi abbiamo approfondito le ragioni politiche del nostro essere qui. Ma la prima ragione l’abbiamo scritta sulla nostra pelle. Non volevamo essere carne da letto, carne di una politica che non ci riconosce come soggetti. Per questo lottiamo. E cerchiamo giorno per giorno di creare la nostra piccola oasi di libertà. È una libertà fatta di piccoli gesti, di rispetto per gli anziani, per l’ambiente. Un’oasi in cui una donna valga tanto quanto un uomo, e la sua voce abbia uguale peso. Un’oasi in cui l’istruzione delle donne sia realmente garantita. E non si creino situazioni in cui se ci sono solo dieci matite vengano distribuite solo ai maschi. Vogliamo costruire una società in cui cibo, acqua e medicinali, siano distribuiti equamente fra tutti: femmine e maschi.
Come vedi Alessandro sono concetti semplici.
Prima vie e la pelle. Solo dopo abbiamo organizzato questi pensieri fondamentali in una struttura politica. Prima abbiamo vissuto sulla nostra carne la necessità di andare oltre il patriarcato. Lo so è una parola antica. Quasi ridicola. Ma questo è quello che ci frega, e lo fa sia nel primo mondo sia nelle società più povere.
Andare oltre al patriarcato per noi ha significato incontrare il Confederalismo democratico, il Municipalismo, la partecipazione comunitaria. Ha significato portare avanti la rivoluzione delle donne, una rivoluzione culturale, in una terra oppressa da riti arcaici, ancestrali, che vedevano la donna sempre sottomessa e subalterna all’uomo. Ma se ci pensi questa storia non è solo la storia di queste terre. Qui è solo più vistosa, più appariscente. La stessa storia, anche se in modo diverso, si ripete anche nel nostro ricco occidente. Dove se ci sono degli ultimi, le donne rappresentano gli ultimi degli ultimi.
Questa è la prima lettera che ti scrivo dopo mesi.
Avevo bisogno di prendere le distanze anima mia.
Non da te solo, anche da me. Volevo prendere le distanze dalla mia paura.
Se tu fossi qui in questa stanza sentiresti il rumore del vento. Mi piace il vento. Domani, quando uscirò dalla procura voglio comprarmi un aquilone, liberarlo nel cielo, aggrapparmi e sollevare un pochino i piedi da terra. Voglio provare il brivido del volo, anche solo per un attimo… o forse più.
E tu Alessandro che cosa vuoi?
Partirai?
Lascerai il tuo buen retiro toscano? Lascerai quella bellissima casa al confine tra mare e pineta? Avrai abbastanza paura per riuscire a lanciarti nel vuoto, per metterti a viaggiare, portando dietro solo i tuoi pennelli?
Avrai abbastanza coraggio per partire, comprarti quel piccolo orto di cui mi parlavi di notte e vivere di nulla. Riconciliandoti con la morte che tutti ci attende?
Buona notte anima mia.

P. s. Ti ho scritto questa lettera usando penna, carta e inchiostro. Non volevo che avesse nulla della meccanicità di una tastiera, e dei pixel di un computer. Volevo che attraverso le mie parole e la mia grafia, tu potessi cogliere la mia anima.
La carta e le buste sono quelle dell’albergo.
In questi mesi ho imparato a vivere di nulla. A viaggiare con poco. Sono arrivata in aeroporto con gli abiti che indosso e un tascapane. Niente più. Tu che un tempo mi prendevi in giro per la mole dei miei bagagli, saresti orgoglioso di me.
Le donne di Rojava mi hanno insegnato anche questo.
Mi hanno insegnato a piangere e seppellire i morti.
Ma forse mi hanno insegnato la cosa più importane di tutte: la morte è importante, ma solo se hai vissuto una vita degna. Le donne di Rojava mi hanno insegnato che prima di onorare la morte, devi onorare la vita.
So che questo ti farà arrabbiare. So che tu ritieni che il passo più importante per un uomo, sia quello di prepararsi alla morte. Perché in fin dei conti, nell’infinito gioco delle illusioni, quella è l’unica cosa certa che abbiamo.
Forse è così!
Ma nel mio libro voglio che ci siano, scritte con chiarezza, sia l’ultima, ma anche la prima pagina. E che vita e morte, possano danzare insieme il loro ineffabile ballo.
Tua Carmela (per sempre)

Gianfranco Falcone

Tratto dalla raccolta “Quarantanove volte Carmela

 

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