Sei anni fa ho iniziato a interessarmi del concetto di empatia.
La ricerca intellettuale si è presto intrecciata con l’avventura umana. Quello che segue è un resoconto di viaggio. Qualcuno potrebbe definirla una seduta psicoanalitica en plein air.
Ho deciso di non modificare nulla del testo.
Difficilmente riuscirei a raggiungere la stessa intensità, la stessa sintesi tra logos e pathos.

Lo psicologo scientifico in genere e lo psicanalista in particolare non devono soltanto avere libero accesso alla comprensione empatica, ma devono anche essere capaci di abbandonare l’atteggiamento empatico. Se non sono dotati di empatia non possono osservare e raccogliere i dati di cui hanno bisogno, ma se non sanno andare al di là dell’empatia non possono stabilire ipotesi né teorie e quindi, in ultima analisi, non possono arrivare a una spiegazione dei dati osservati.

Il mio primo incontro con il concetto di empatia è stato con la precedente citazione di Kohut. Di questa mi avevano colpito la chiarezza di esposizione, e l’indicazione che un buon uso dell’empatia implicasse un distacco dall’empatia stessa, perché altrimenti non si possono formulare ipotesi o teorie. Non avevo mai pensato a questo, per me empatia significava soltanto mettersi in sintonia con le emozioni dell’altro.

Quando ho dovuto scegliere il titolo della tesi, mi sono ricordato di questa citazione. È stato allora che ho deciso che quello sull’empatia poteva essere un buon argomento da approfondire.
All’inizio è stato affascinante navigare tra i diversi testi che affrontavano l’argomento, ed avendo io una formazione filosofica non c’è stato niente di più accattivante dell’incontro con un testo di Pinotti del 2011: “Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano”. Il testo affrontava il concetto di empatia da un punto di vista filosofico, con uno stile tagliente e sarcastico. Ogni pagina stimolava la lettura di quella successiva, in una sorta di voracità intellettuale.

Dopo l’incontro con Pinotti c’è stato l’incontro con il lavoro di Rizzolatti e Gallese. Con questi due autori mi sono reso conto ancora una volta di quanto potente sia l’uso di internet. Infatti, è stato su internet che ho trovato i video in cui i due autori affrontavano il tema dei neuroni specchio, che ben si connette al tema dell’empatia. Attraverso internet ed i video, concetti astratti prendevano la forma di parole parlate e dialoghi, prendevano il corpo e il viso degli autori.

L’incontro con Gallese è stato amore a prima vista. Trovavo che l’autore avesse la rara capacità di mettere in connessione neuroscienze, filosofia, psicologia e altro ancora, tracciando una trama complessa, ma nello stesso tempo comprensibile. Mi affascinava il suo tentativo di realizzare una “democrazia del sapere”, mettendo gratuitamente sul suo sito tutta la sua produzione intellettuale, scaricabile gratuitamente.

L’inizio del viaggio è stato una sorta di orgasmo intellettuale.
Ho confezionato i primi due capitoli con entusiasmo e con voglia e li ho inviati alla docente che ben presto mi ha dato giudizio positivo. A quel punto ho iniziato a confezionare il terzo capitolo, e poi…

Poi é stata la notte.

Esattamente un anno fa, il quattro marzo del 2014, sono passato nell’arco di ventiquattro ore dall’idea di laurearmi nella sessione marzo/aprile di quello stesso anno, al coma, alla tracheotomia e ad un lungo periodo contrassegnato da infezioni e polmoniti.
Avevo perso la coscienza di me. Rimanevano soltanto i bisogni del corpo.

Mi era stata diagnosticata una Guillain Barré, rara malattia autoimmune, che era arrivata come uno tsunami, aveva bruciato la mielina dei nervi e mi aveva lasciato come un vegetale. Potevo solo aspettare un lento e spontaneo recupero, che è iniziato con deboli movimenti degli occhi, seguiti dai primi tentativi di comunicazione. Però, é stato solo utilizzando un alfabetiere in plexiglass che ho potuto esprimere i primi pensieri e le prime emozioni, tra cui campeggiavano lo stupore per una vita che era stata bruscamente interrotta, e per un lavoro di tesi che non avevo potuto finire.

È stato a quel punto che Patrizia mi ha detto che avremmo finito quel lavoro in ospedale. In quel momento non potevo far altro che considerare “matta” la mia compagna, eppure quella follia si è poi realizzata. All’ospedale Niguarda ho concluso l’ultimo capitolo, e adesso alla clinica Dezza di Milano sto scrivendo le conclusioni. Se empatia significa ascoltare le emozioni dell’altro e poi sapersene staccare, per poter esercitare un pensiero critico e orientare l’azione, credo che quello di Patrizia sia un buon esempio di empatia.
Al Niguarda mi ha più volte richiamato al lavoro, insensibile ai miei tentativi di svicolare l’impegno professionale, ma più attenta a un bisogno più profondo. Questa capacità di sapere distinguere tra un bisogno più superficiale e un bisogno più profondo, credo derivi da una buona capacità empatica.

Quello della mia compagna non è stato comunque l’unico esempio di approccio empatico cui ho avuto modo di assistere. Non era raro che gli infermieri si fermassero accanto a me, raccontandomi dei piccoli fatti quotidiani, scampoli di riflessioni, brevi aneddoti. Il tutto avveniva quasi casualmente, in modo indifferente, ma era la risposta a una mia profonda necessità di comunicazione, a un bisogno di non sentirmi solo, che veniva colto in modo empatico.

Se chiudo gli occhi e penso a quei giorni, ritrovo altri episodi simili. Uno di questi mi è particolarmente caro. Non ne potevo più e mi sono messo a piangere durante una seduta di fisioterapia e Federico, un giovane fisioterapista, ha accolto il mio pianto. Ho sempre creduto che sia stato a causa di questo episodio che Giovanni, un infermiere della rianimazione, il giorno dopo mi ha portato fuori dalla corsia a fare una passeggiata in carrozzina. Pioveva, e alla domanda se volevo andare fuori alla pioggia ho risposto sì. Mi emoziona ancora ricordare quella pioggia fine. Da allora sono passati diversi mesi.

Oggi sono in carrozzina e riesco a dettare queste conclusioni alla mia assistente, una giovane donna di ventiquattro anni che si chiama Arianna, e mi aiuta a dipanare il filo della memoria relativo alla malattia, mi aiuta a riconnettermi ancora una volta al sapere. Arianna è un nome che evoca il mito, evoca il labirinto, evoca l’uscita dal labirinto, e forse, è soltanto ricorrendo al mito che può esserci una possibilità in più di comprensione. Così, Kohut ricorre al mito, alla figura mitica di Ulisse per spiegare che l’empatia ha bisogno di un quadro concettuale nuovo, diverso da quello freudiano. Così io, sperando di essere perdonato, ricorro alla figura mitica del labirinto per spiegare la mia voglia di comprendere l’empatia e questo meraviglioso ultimo anno, che mi ha lasciato in carrozzina.

Dopo cinque mesi di rianimazione all’ospedale San Carlo sono passato all’Unità Spinale dell’ospedale Niguarda, sempre a Milano. All’Unità Spinale ho avuto modo di sperimentare quanto l’empatia sia importante nelle relazioni umane.

Gli operatori interagivano tra loro per salvaguardare la mia salute, e ricordo con affetto l’allegria con cui molti entravano in relazione con me e con gli altri pazienti. Questa allegria era senz’altro frutto di una profonda empatia, che metteva gli operatori in grado di cogliere lo stato di disagio, bisogno e fragilità dei pazienti. Si trattava di un complesso di emozioni che dovevano essere colte e richiedevano comunque, la capacità di effettuare una separazione dalle emozioni stesse, per poter intervenire e prestare la cura.

Ciò di cui mi sono reso conto in questo complicato periodo della mia vita, è che l’empatia è un fenomeno bidirezionale, coinvolge sia chi offre la cura sia chi la riceve. Molto spesso ho dovuto mettermi in connessione con le emozioni e i pensieri degli operatori che mi stavano accanto, per comprendere con chi avessi a che fare. E ho potuto fare questo soltanto attraverso un buon uso dell’empatia, che mi aiutava a stabilire come modulare le mie comunicazioni, ed esprimerle in modo “sufficientemente buono”. Il concetto di sufficientemente buono è mutuato da Winnicott, il quale parla di madre sufficientemente buona, una madre sicuramente non perfetta, ma in grado di rispondere alle esigenze del bambino. Il concetto di “madre sufficientemente buona” mi è particolarmente caro, tanto che nel corso degli anni ho provato ad estenderlo anche ad altre situazioni, che non fossero il rapporto madre bambino. D’altronde, la modulazione delle comunicazioni, derivanti da un buon uso dell’empatia, mi fa ricordare le pagine di Greenson, autore che affronta la riflessione sull’empatia, partendo dalle distorsioni che essa presenta, e più precisamente distorsioni come l’inibizione e la perdita di controllo.

Nello scrivere queste righe sono costretto continuamente a passare dal livello teorico a quello esperienziale, e viceversa. In questo continuo passaggio, si fa strada il tentativo di comprendere quanto dei temi teorici incontrati per sviluppare il corpo della tesi, siano stati poi vissuti nel quotidiano di questo lungo periodo di ospedalizzazione. In proposito mi torna in mente il concetto di esperienza ah! espresso da Greenson. Mi è sembrato di poter sperimentare questa stessa esperienza in circostanze particolari. Si avvicinavano le dimissioni dal Niguarda, e mentre Giovanna, la mia fisioterapista di riferimento mi stava mobilizzando, si è seduta sul lettino un’altra fisioterapista, Luisa. Le ho accarezzato il viso, e a lei per tutta risposta sono spuntate le lacrime, con il risultato di indurmi al pianto. Per sdrammatizzare la situazione ho detto che non si potevano far piangere i pazienti l’ultimo giorno. Poi mi sono messo a parlare con Giovanna, e mentre la conversazione con lei si stava sviluppando piacevolmente, ho avuto proprio un’esperienza ah! Ho interrotto la conversazione e ho detto, che mi ero staccato troppo presto dall’emozione precedente, vissuta con Luisa, e che volevo fermarmi un attimo per ritrovarla.

Quella con Giovanna è stata un’esperienza molto ricca. La sua capacità empatica e di accoglienza, per certi aspetti mi ha ricordato la funzione empatica della madre, indispensabile, così come ricorda Kohut, per la strutturazione del Sé, che è anche un Sé corporeo.

’empatia che Giovanna era in grado di sviluppare nelle sedute di fisioterapia si è dimostrata indispensabile, per passare da una situazione di totale immobilità, a una in cui il corpo tornava a rispondere al dominio della mente. Ho sempre pensato che Giovanna utilizzasse l’empatia per ascoltare desideri, entusiasmi, dolori, sofferenze, sia fisiche sia spirituali del paziente, e poter così orientare la fisioterapia. Sono del resto convinto che una fisioterapia disgiunta dall’empatia, sia più vicina a una mera ginnastica che a una vera terapia. Grazie alla grande capacità empatica di Giovanna lo spazio della fisioterapia effettuata al Niguarda, si è presto trasformato in uno spazio di pensiero, di emozioni, di affetti.

Sicuramente l’empatia non è qualcosa che, come ricorda Kohut, si sviluppa soltanto all’interno e a favore di relazioni positive. Infatti, mi è capitato anche di incontrare rari operatori, che facevano dell’empatia uno strumento per cogliere e comprendere l’emozione del paziente, ma ritorcerle contro di lui, in un gioco perverso.

Pensandoci adesso, mentre scrivo queste conclusioni, mi rendo conto che in quel lungo periodo ho avuto bisogno di persone accanto a me che facessero dell’empatia un reale strumento. Avevo bisogno di persone che fossero empatiche, e che sapessero a tempo debito staccarsi dall’empatia, per poter intervenire e decidere quale fosse il percorso terapeutico più adatto.

Borges nel suo volume di poesie dal titolo Finzioni, scriveva: “Il gioco della memoria, moneta che non è mai la medesima”. E così, nel tentare di ricostruire gli ultimi mesi di malattia, a volte mi perdo e non riesco a ricollocare gli eventi e le emozioni, però di alcuni visi ho una netta memoria.

Ricordo Michela che assisteva con empatia e amore suo marito, determinata a salvargli la vita, ricordo Giuseppe, padre sanguigno e grintoso che nei giorni della malattia ha accompagnato suo figlio nel delicato passaggio tra adolescenza ed età adulta, con passione, con amore, con coraggio. L’ho visto agire con estremo rigore, quando i desideri dell’adolescente cozzavano contro i bisogni di un percorso terapeutico.

Non mi è facile ricollegarmi a questi ricordi, perché ognuno di essi porta con sé il sapore di quei giorni, il pathos di quei giorni, e l’empatia con cui ascoltavo e guardavo la mia storia e la storia di chi, in modo diverso ma uguale, percorreva la mia stessa strada. Guardavo la mia storia e quella degli altri, cercando di non perdermi nel gioco contraddittorio delle emozioni, ma cercando piuttosto di ritrovare sempre il senso di me stesso.

In quei giorni ho capito alcune cose: che la vera scommessa non era quella di rimettersi in piedi, ma di decidere quale uomo volessi essere. Non solo, ho capito anche, che non è sufficiente il coraggio individuale per ascoltare le proprie e altrui emozioni, ma è necessario che anche l’istituzione ospedaliera si ponga il compito di salvaguardare le emozioni, il gioco dell’empatia, e i pensieri di chi è degente.

Quelle precedenti sono le conclusioni che scrissi cinque anni fa, per una tesi sull’empatia. Alla fine non mi sono rimesso in piedi. La malattia mi ha lasciato in eredità la tetraplegia.

La meraviglia rimane.